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[In copertina: Amedeo Modigliani, Albero e case, 1919]
Parte prima
1.
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all'uno e all'altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata.
Noi non ci stupiremmo
non è vero, anima mia, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
Invece camminiamo.
Camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
son case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioja e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
2.
Talor, mentre cammino solo al sole
e guardo coi miei occhi chiari il mondo
ove tutto m'appar come fraterno,
l'aria la luce il fil d'erba l'insetto,
un improvviso gelo al cor mi coglie.
Un cieco mi par d'esser, seduto
sopra la sponda d'un immenso fiume.
Scorrono sotto l'acque vorticose.
Ma non le vede lui: il poco sole
ei si prende beato. E se gli giunge
talora mormorio d'acque, lo crede
ronzio d'orecchi illusi.
Perché a me par, vivendo questa mia
povera vita, un'altra rasentarne
come nel sonno, e che quel sonno sia
la mia vita presente.
Come uno smarrimento allor mi coglie,
uno sgomento pueril.
Mi seggo
tutto solo sul ciglio della strada,
guardo il misero mio angusto mondo
e carezzo con man che trema l'erba.
3.
Mi desto dal leggero sonno solo
nel cuore della notte.
Tace intorno
la casa come vuota e laggiù brilla
silenzioso coi suoi lumi un porto.
Ma sì freddi e remoti son quei lumi
e sì grande è il silenzio della casa
che mi levo sui gomiti in ascolto.
Improvviso terrore mi sospende
il fiato e allarga nella notte gli occhi.
Separata dal resto della casa
separata dal resto della terra
è la ma vita e io son solo al mondo.
Poi il ricordo delle vie consuete
e dei nomi e dei volti quotidiani
mi ritorna nel sonno,
e di me sorridendo mi riadagio.
Ma, svanita col sonno la paura,
un gelo in fondo all'anima mi resta.
Ch'io cammino fra gli uomini guardando
attentamente coi miei occhi ognuno,
curioso di lor ma come estraneo.
Ed alcuno non ho nelle cui mani
metter le mani con fiducia piena
e col quale di me dimenticarmi.
Tal che se l'acque e gli alberi non fossero
e tutto il mondo muto delle cose
che accompagna il mio viver sulla terra,
io penso che morirei di solitudine.
Or questo camminare fra gli estranei
questo vuoto d'interno m'impaura
e la certezza che sarà per sempre.
Ma restan gli occhi crudelmente asciutti.
4.
Esco dalla lussuria.
M'incammino
pei lastrici sonori della notte.
Non ho rimorso e turbamento. Sono
solo tranquillo immensamente.
Pure
qualche cosa è cambiato in me, qualcosa
fuori di me.
Ché la città mi pare
sia fatta immensamente vasta e vuota,
una città di pietra che nessuno
abiti, dove la Necessità
sola conduca i carri e suoni l'ore.
A queste vie simmetriche e deserte
a queste case mute sono simile.
Partecipo alla loro indifferenza,
alla loro immobilità.
Mi pare
d'esser sordo ed opaco come loro,
d'esser fatto di pietra come loro.
Ché il mio padre e la mia sorella sono
lontani, come morti da tanti anni,
come sepolti già nella memoria.
Il nome dell'amico è un nome vano.
Tra me e loro s'è interposto il mio
peccato come immobile macigno.
E se sapessi che il mio padre è morto,
al qual pensando mi piangeva il cuore
di essere lontano ora che i giorni
della vita comune son contati,
se mi dicesser che il mio padre è morto,
seno bne che adesso non potrei
piabgere.
Son come posto fuori della vita,
una macchina io stesso che obbedisce,
come il carro e la strada necessario.
Ma non riesco a dolermene.
Cammino
pei lastricati sonori nella notte.
5.
Non, Vita, perché tu sei nella notte
la rapida fiammata, e non per questi
aspetti della terra e il cielo in cui
la mia tristezza oribile si placa:
ma, Vita, per le tue rose le quali
o non sono sbocciate ancora o già
disfannosi, pel tuo Desiderio
che lascia come al bimbo della favola
nella man ratta solo delle mosche,
per l'odio che portiamo ognuno al noi
del giorno prima, per l'indifferenza
di tutto ai nostri sogni più divini,
pel non potere vivere che l'attimo
al modo della pecora che bruca
pel mondo questo e quello cespo d'erba,
e ad esso s'interessa unicamente,
pel rimorso che sta in fondo ad ogni
vita, d'averla inutilmente spesa,
come la feccia in fondo del bicchiere,
per la felicità grande di piangere,
per la tristezza eterna dell'Amore,
pel non sapere e l'infinito bujo…
Per tutto questo amaro t'amo, Vita.
6.
Sonno, dolce fratello della Morte,
che dalla Vita per un po' ci affranchi
ma ci rilasci tosto in sua balìa
come un gatto che gioca col gomitolo;
di te, finché la mia vita giustifichi
la vita della mia sorella e un segno
che son vissuto anch'io finché non lasci,
io mi contenterò e del tuo inganno.
Vieni, consolatore degli afflitti.
Abolisci per me lo spazio e il tempo
e nel nulla dissolvi questo io.
Nessun bambino mai così fidente
s'abbandonò sul seno della madre
com'io nelle tue mani m'abbandono.
Quando si dorme non si sa più nulla.
7.
Padre, anche se tu non fossi il mio
padre, se anche fossi un uomo estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattino d'inverno
che la prima viola sull'opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell'altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi a petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch'era il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi un uomo estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.
8.
Ora che non mi dici niente, ora
che non mi fai godere né soffrire,
tu sei la consueta dei miei giorni.
Tu somigli ad un lago tutto uguale
sotto un cielo di latta tutto uguale.
Assonnato mi muovo sulla riva.
Non voglio non desidero, neppure
penso.
Mi tocco per vedere se sono.
E l'essere il non esser, come l'acqua
e il cielo si confondono.
Diventa il mio dolore quel d'un altro
e la vita non è lieta né triste.
T'odio, compagna assidua dei miei giorni,
che alla vita non mi sottrai, facendomi
come il sonno una cosa inanimata,
ma me la lasci solo rasentare.
Poiché son rassegnato a viver, voglio
che ogni ora del dì mi pesi sopra,
mi tocchi nella mia carne vitale.
Voglio il Dolore che m'abbranchi forte
e collochi nel centro della Vita.
Ora che non mi dici niente, ora
che non mi fai godere né soffrire,
io rassegnato aspetto che tu passi.
9.
Io ti vedo con gioja e con paura
ogni giorno scemare, mio Dolore.
Come l'amante che al risveglio spia
il volto dell'amante addormentata
e sente il freddo dell'irreparabile
ché i due corpi così vicini vede
farsi ogni giorno più tra loro estranei,
ogni mattino che mi sveglio scopro
il tuo volto più pallido, Dolore,
finché un mattino al posto tuo m'appaja
il volto scialbo della Consuetudine.
Tu che illudesti un po' la mia
aridità e che ai miei chiari occhi
di pianto intorbidandoli, lasciasti
vedere meno bene, e mi facesti
tutta la vita vivere nell'attimo,
adesso che ho imparato a amarti solo
o Dolore tu anche passeggero,
irreparabilmente te ne vai.
E se mi fosse dato, non avrei
forse il coraggio di chiamarti indietro.
Ma la mia vera vita con te viene
perché quando non soffro neppure vivo.
10.
Talor, mentre cammino per la strada
della città tumultuosa solo,
mi dimentico il mio destino d'essere
uomo tra gli altri, e, come smemorato,
anzi tratto fuor di me stesso, guardo
la gente con aperti estranei occhi.
M'occupa allora un puerile, un vago
senso di sofferenza e d'ansietà
come per mano che mi opprime il cuore.
Fronti calve di vecchi, inconsapevoli
occhi di bimbi, facce consuete
di nati a faticare e a riprodurre\\,
facce volpine stupide beate,
facce ambigue di preti, pitturate
facce di meretrici, entro il cervello
mi s'imprimono dolorosamente.
E conosco l'inganno pel qual vivono,
il dolore che mise quella piega
sul loro labbro, le speranze sempre
deluse,
e l'inutilità della lor vita
amara e il lor destino ultimo, il bujo.
Ché ciascuno di loro porta seco
la condanna d'esistere: ma vanno
dimentichi di ciò e di tutto, ognuno
occupato dall'attimo che passa,
distratto dal suo vizio prediletto.
Provo un disagio simile a chi veda
inseguire farfalle lungo l'orlo
d'un precipizio, od une compagnia
di strani condannati sorridenti.
E se poco ciò dura, io veramente
in quell'attimo dentro m'impauro
a vedere che gli uomini son tanti.
11.
Lacrime, sotto sguardi curiosi
non mi scoppiate a un tratto mentre parlo
di vane cose (mi sovviene a un tratto
del mio cammino sotto i cieli bui,
non avendo una mano che m'incuori:
e l'inutilità di ciò che dico
di ciò che faccio mi fa male il cuore).
M'irrita la carezza nei capelli.
Io troppe volte in giovinezza risi
per ricacciare dentro le mie lacrime,
ché la pietà degli uomini m'umilia.
E quell'altro mio io il quale sempre
m'accompagna, vorrebbe quando piango
alzar la faccia e ridere frenetico.
Mentre guardo mio padre ginoccchioni
non mi colate giù rapide e calme.
Mi guarda il padre coi suoi poveri occhi
senza battere ciglio e scopre nuovo
l'irrequieto che tenea per mano
e che gli crebbe presso sconosciuto.
Ma nell'angolo bujo d'una stanza
o nella solitudine d'un bosco
oh dolcezza di pianger tutto solo!
Al sostegno più prossimo m'appoggio
nell'improvvisa piena del mio petto
abbandonatamente come fossi
per morire e tra mezzo grosse lacrime
mi brilla il viso di riconoscenza.
Allora sotto la bontà dei cieli
io sono nudo come quando nacqui.
Dietro il sottile velo delle lacrime
allora sono veramente io.
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17.
Padre che muori tutti i giorni un poco,
e ti scema la mente e più non vedi
con allargati occhi che i tuoi figli,
e di te non t'accorgi e non rimpiangi,
se penso la fortezza colla quale
hai vissuto, il disprezzo c'hai portato
a tutto ciò che è piccolo e meschino,
sotto la rude scorza
l'istintiva poesia della tua anima,
il bene ch'hai voluto alla tua madre,
allo sorella ingrata, a nostra madre
morta,
tutta la vita tua sacrificata,
e poi ti guardo così come sei,
io mi torco in silenzio le mie mani.
Contro l'indifferenza della vita
vedo inutile anch'essa la virtù,
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.
Io voglio confessarmi a tutti, padre,
che ridi se mi vedi e tremi quando
d'una qualche attenzion ti faccio segno,
di quanto fui vigliacco verso te.
Benché il rimorso mi si alleggerisca,
che più giusto sarebbe mi pesasse
inconfessato sempre sopra il cuore.
Io giovinetto imberbe, t'ho guardato
con ira, padre, per la tua vecchiezza.
Stizza contro te vecchio mi prendeva.
Padre che mi hai tenuto sui ginocchi
nella stanza che si oscurava, in faccia
alla finestra e contavamo i lumi
di cui si punteggiava la collina,
facendo a gara a chi vedeva primo,
perdono non ti chiedo con le lacrime
che mi sarebbe troppo dolce piangere,
ma con quelle più amare te lo chiedo
che non vogliono uscirmi da miei occhi.
Un pensiero soltanto mi consola
di poterti guardar con gli occhi asciutti.
Il ricordo che piccolo pensando
che come gli altri uomini dovevi
morire pure tu, il nostro padre,
solo e zitto ne mio letto la notte
io di sbigottimento lagrimavo.
Di quello che i miei occhi ora non piangono
quell'infantile pianto mi consola,
padre, perché mi par d'aver lasciata
tutta la fanciullezza in quelle lacrime.
Se potessi promettere qualcosa
se potessi fidarmi di me stesso
se di me non avessi anzi paura,
padre, una cosa ti prometterei.
Di viver fortemente come te
sacrificato agli altri come te
e negandomi tutto come te
povero padre, per la fiera gioja
di finir tristemente come te.
18.
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Parte seconda
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