Una cornice dialogica, che alla fine si riduce ad una breve battuta conclusiva, ovvia e frettolosa, contiene un vero e proprio trattato su un genere di spettacolo, la pantomima, che da Augusto in poi si avviò a diventare l'unico in teatro capace di guadagnarsi non solo l'interesse, e poi l'entusiasmo, del grosso pubblico, ma anche l'attenzione degli intellettuali, che a poco a poco ne furono attratti al punto di sentirsi in dovere di giustificare a se stessi e agli altri le ragioni, per le quali si trovavano a condividere l'ingenuo calore del sentimento popolare. E ciò spiegherebbe, intanto, il tono fortemente elogiativo che percorre ogni pagina di questo singolare trattato, il quale, partendo da uno spunto apologetico — il cinico Cratone ha composto una sprezzante accusa contro la pantomima — si trasforma ben presto nella più convinta esaltazione; ma non è proprio di Luciano lasciarsi prendere da facili entusiasmi: se intende elogiare qualcuno o qualcosa, l'elogio è fondato razionalmente su prove o dimostrazioni. E infatti l'illustrazione di quella che costituisce l'essenza dello spettacolo e che l'A., atticisticamente, denomina «danza» — il vocabolo παντόμιμος egli ci avverte è italiota — tende sùbito a sollecitare con un iniziale excursus storico l'attenzione delle persone colte; ma anche la trattazione dell'arte mimica, secondo elemento-base della pantomima, è tale da non lasciar cadere questa attenzione. Se poi tutto ciò ha fatto pensare al trattato, non c'è da stupirsi. Ricordiamo, infine, che il tronfio Elio Aristide pubblicò un trattato contro la pantomima e che, d'altro canto, l'imperatore Lucio Vero mostrava un interesse particolare per la danza mimica, e troveremo altre buone ragioni «esterne», dalle quali Luciano può esser stato indotto a scrivere. Egli era ad Antiochia, e c'era anche L. Vero: scrisse, dunque, fra il 162 e il 163 d.C.